Pages - Menu

mercoledì 12 febbraio 2014

Cinque anni fanno la differenza

AN: L'ho scritto, l'ho pubblicato, l'ho cancellato... Non volevo far insorgere dubbi in chi aveva un percorso simile al mio o scatenare pippe mentali simili a quelle qui esposte, quindi ho rimosso il post. Poi mi sono confrontata con un'amica e lei mi ha fatto notare che, in realtà, magari qualcuno ci si poteva ritrovare. O poteva condividere qualche pensiero... Quindi, riproviamo.
Magari stasera avrò deciso di nuovo di cancellarlo.


Parlavo poco fa con un'amica del tirocinio post lauream che ci aspetta. Tirocinio - ovviamente - non retribuito. E mi chiedevo: perché imporre un'attività fuori dal percorso universitario (perché è POST LAUREAM) di un sacco di mesi in cui uno deve continuare a pesare sulle spalle altrui? E chi non ce la fa? Chi non ha qualcuno che provvede economicamente per lui, come fa? Perché, mio amato Stato Italiano, mi imponi 1000 ore di tirocinio non pagato per iscrivermi all'albo? Non puoi almeno farmi dare il minimo sindacale, un rimborso benzina... qualcosa? Perché 1000 ore - anche se compresse in 8 ore al giorno - sono tipo sei mesi! Altri sei mesi in cui io sono a carico della mia famiglia... Solo io lo trovo terribile?

Cinque anni fa io ero una persona diversa. Cinque anni fa vivevo passivamente gli eventi e non riuscivo ad accettare di essere l'unica tra i miei conoscenti a non avere un futuro.
Sì, perché nell'estate della maturità io non avevo idea di che strada scegliere e - come molti - ho scelto a caso. Sbagliando, si intende.

Il giorno in cui ho capito che non potevo continuare è stato il più demoralizzante della mia vita: pensavo che l'umiliazione più grande sarebbe stata comunicare agli altri il mio fallimento. Credevo che non avrei più sentito quell'inadeguatezza, quello sguardo di giudizio mortificante di chi ti fissa e pensa che tu sia un disastro.

Pensavo male, chiaro.

Ero così imbarazzata che a molte persone non ho neppure detto che lasciavo l'università. In tanti quando l'hanno scoperto mi hanno rimproverato e molti di più hanno finto di provare ammirazione per la mia scelta, salvo poi abbandonarsi a critiche e annessi quando io non ero più lì.

Qualcuno mi ha detto: "Hai fatto bene. Ora sai cosa vuoi: cinque anni non faranno la differenza."
Ai tempi lo credevo anche io. O ci volevo credere.

Oggi so che non è così.

Se tornassi indietro ammetterei ancora di non essere in grado di concludere quella facoltà? Sì, perché la verità è che non avevo ciò che serviva per laurearmi.

Ma non so se ricomincerei tutto dal principio. Amo quello che studio e so che è la mia strada, ma forse mi sono illusa di non essere "fuori tempo massimo".

A ventinove anni c'è una cosa che ti imbarazza da morire: presentarsi come "studentessa". C'è quello e l'aggravante mortificazione di non potersi mantenere da sola. Non c'è giorno in cui io non mi guardi e un po' non provi rabbia per dover ancora dipendere dai miei genitori: quella è l'unica cosa per cui rimpiango di aver ricominciato. Dalla laurea triennale mi chiedo se non sarebbe stato più pratico andare a fare un lavoro che non richiedeva un titolo di studio.

Essere l'unica al tavolo che ancora non ha una carriera è mortificante, così mortificante che - a volte - ti fa passare la voglia di uscire a cena con gente nuova.
Parliamoci chiaro, nessuno mi ha esplicitamente palesato il pensiero negativo, ma anche io penserei male se una a ventinove anni mi dicesse che è ancora all'università.

Quando ho ricominciato ho giurato che sarei stata nei tempi: avevo già perso troppi anni e non volevo pesare sulla mia famiglia più del dovuto. Ho più volte pensato "Perché ci vogliono così tanti anni?".

Cinque anni, a ventinove anni, in me fanno la differenza.

Non è una formula che vale per tutti: spero che chi ha fatto una scelta simile alla mia non provi lo stesso rammarico. È giusto essere orgogliosi e sicuri delle proprie decisioni. Io sono orgogliosa di non aver perpetuato nel mio fallimento, di aver capito chi volevo essere, di aver smesso di vivere per inerzia. Ma non riesco ad essere orgogliosa quando mi chiedono la mia professione. Aspetto con ansia il giorno in cui potrò essere fiera di presentarmi come "Psicologa" e non "studentessa di psiclogia clinica".

Per ora i miei cinque anni pesano più o meno come il fallimento precedente.

Soprattutto affligge il fatto che più in fretta di così non posso fare: ma questi sono cinque anni che ho rubato ai miei genitori e che loro non avranno più indietro. E io vedo come una sconfitta anche questo.

Ero brava a scuola. Ero una di quelle di cui si pensava "entra all'università e si laurea perfetta in corso". Non ero una secchiona, ma ero brava.

Gli ultimi anni era meno difficile: ero circondata da gente che, benché laureata, ancora studiava per esami di stato e concorsi. Perché l'università italiana un po' è così: finisci, ma alla fine non hai finito proprio nulla e ti ci vuole una vita prima di poter esercitare per quello per cui hai studiato.

Dopo la triennale avevo pensato di fermarmi: avevo un titolo di studio, avevo saldato il debito di una laurea con i miei. C'era un aspetto che però non avevo contemplato e che mi ha reso noto mia madre quando le ho parlato della mia idea di fermarmi. Ricordo che mi ha detto:

"Io non sono d'accordo: se ti fermi ora è comunque un percorso di studi non concluso... Non puoi fare la psicologa a tutto tondo con una laurea triennale e sono altri tre anni buttati via."



Ho passato 4 giorni a pensare a quella frase e a combattere con me stessa: avevo ventotto anni, santo cielo! Non potevo ancora farmi mantenere!

Lei aveva ragione, ma ne avevo anche io: ero una donna e il mio orgoglio finiva sotto ai piedi ogni giorno in cui non avevo un mestiere per cui pagare i contributi.

Ci sono state serate di confronti e momenti in cui l'ipotesi di non continuare veniva palesata come mancanza di rispetto per loro che mi avevano supportato tre anni (facciamo otto e contiamo anche quelli del fallimento) più del necessario.

Ho continuato: lo dovevo a loro e lo dovevo a me. Non ero una psicologa completa e la mia formazione era di base.

Ho proseguito con la Magistrale e ho fatto il mio dovere. Già, perché quando sei studente il tuo lavoro è quello: studiare. Eppure non sempre ti fa sentire bene con te stesso.

Non rimpiango di aver trovato la mia strada; rimpiango di averlo fatto troppo tardi.
Spero di resistere questo ultimo anno (più il cazzo di tirocinio non retribuito, perché in Italia si allunga tutto l'allungabile!) senza dover incrociare qualche sguardo tipo "I'm judging you".

"I'm judging me, too, amico. Molto più di quanto tu possa giudicare me."



PS: mi è stato chiesto in alcune occasioni se la storia di Med fosse autobiografica... La risposta è, purtroppo per me, no... Ma quando ho scritto TuttoTondo la prima volta e dopo aver parlato con alcune persone che avevano vissuto un momento di "smarrimento" simile, ho pensato che quel tipo di conflitto fosse plausibile e che - in qualche misura - potesse essere rappresentativo del disagio che alcuni studenti provano. No, io non ho un fratello fisico e non ho un Alex tra le mani, purtroppo. E, fortunatamente, io e Med siamo molto diverse dal punto di vista caratteriale. Però, sì, se leggendo questa cosa si è risvegliato un ricordo di TuttoTondo è perché alcune cose che ho vissuto, visto e sentito mi sono sembrate perfette per una come lei. Non sarò così cattiva da appiopparle anche altri miei "conflitti", ma questo ci stava. Alla fine, da allora, ho incontrato più venticinquenni che non sapevano che cosa volevano di quelli che avevano chiaro il futuro.





Nessun commento:

Posta un commento