Questo, in fondo, è il mio blog, nato in principio un po' anche per TuttoTondo... poi, va beh, io mi perdo via, ma questo si sa.
In ogni caso, mi sembra sensato avere il racconto di Med anche qui: questa è casa mia e questa la mia storia.
Quindi, senza tanti indugi, per ora vi linko il prologo e il primo capitolo.
Ah, cosa importante:
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia
Io ci sputo l'anima da anni in questa storia, ho messo il cuore e ogni neurone nel cercare di creare le personalità di questi personaggi - sperando di formarli in modo almeno un po' realistico e non troppo banale - e passo ore e ore a pensare a come sviluppare gli eventi e a che parole (e battute) usare: non ho intenzione di accettare incidenti spiacevoli di scopiazzamento, libera ispirazione (per di più non autorizzata) e varie ed eventuli.
Proprio perché non ci vuole una scienza ad inventare qualcosa di diverso da quello che c'è in TuttoTondo, non penso di dovermi fare problemi e voglio evitare estenuanti "lotte", che ti tolgono la voglia di scrivere e di leggere, temo: personaggi, fatti, eventi, appartamenti, genitori, baci, dialoghi, insulti e tutto il resto appartengono a me.
E sì, in caso di tentata fregatura, io smetto di essere una simpatica donna divertente e divento una iena: il che significa che non mi limito al rimprovero.
Scusate il monologo isterico, ma pare che sia necessario specificare certe cose: è ridicolo, ma da quando sto su EFP ho capito che anche le basi non sono proprio scontatissime.
"Sei tu che decidi quanto tempo concedere alla tua vita. Non lasciare che gli altri scandiscano il tuo tempo. Però ricordati che al mondo non importa se tu sia raggiante o arrabbiata. Il mondo non aspetta che tu ingrani. Impara a sorridere di più e a gioire di più ogni mattina."
by
La mia bisnonna Maria
Ecco, la mia bisnonna era una di quelle vecchie matrone con gli attribuiti, che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e che vedeva il lato positivo di ogni cosa. Viveva la vita secondo le proprie regole e sapeva leggere le persone come se fossero ricettari da cucina.
Durante la Seconda Guerra Mondiale si è categoricamente rifiutata di condividere il proprio tetto e cibo con i fascisti e ha preteso che le restituissero il suo amato Franceschino - suo marito, di sinistra fino al midollo osseo, che si è fatto una settimana poco piacevole dopo aver dichiarato "Viva il socialismo" in piazza al paese. Lei se l'è portato a casa e l'ha insaccato di epiteti poco carini per non aver usato il cervello, ricordandogli che l'olio di ricino era la cosa minore che gli poteva capitare.
Donna con i controcazzi, la definiremmo oggi.
Amava svegliarsi la mattina presto, col sorriso sulle labbra. L'alba per lei era il massimo della vita.
Apparentemente io da lei ho ereditato solo la costituzione fisica, però.
Io odio svegliarmi la mattina, come credo almeno il 78% della popolazione mondiale, ma soprattutto ho la tendenza a non riuscire a proferire parola per almeno mezza’ora da quando apro gli occhi. Sono anche allergica ad ogni tipo di interazione umana per i primi quarantacinque minuti della mia giornata.
Oltretutto - non lo dico con orgoglio - sono abbastanza sicura che il mio cervello non si inserisca fino a quando non introduco una sufficiente quantità di caffeina nel mio sistema.
Da quanto ho capito è una cosa ereditaria perché sia mia madre che mio fratello paiono avere lo stesso problema. Al contrario di mio padre, invece, che nell’istante in cui suona la sveglia dimostra un’insaziabile necessità di conversare; necessità che va scemando poi nell’arco della giornata, ma che parrebbe implacabile non appena riesce a accalappiare un membro della nostra famiglia.
Ma è in minoranza; di solito finisce con l'allontanarsi borbottando la sua disapprovazione e chiedendosi perché la sua famiglia è composta solo da stronzi. Suppongo che un giorno se ne farà una ragione.
Ritengo che sia da considerare illegale il fatto che si effettuino attività prima delle dieci del mattino: sfortunatamente, però, i potenti della Terra non convengono con la genialità insita in questa mia convinzione. Ragion per cui resteremo tutti assonnati e burberi fino a che io non sarò eletta regina della Terra e cambierò queste assurde usanze.
Personalmente porto ancora i segni dei risvegli traumatici di mia madre: quando avevo sette anni in genere lei, con infinita dolcezza, spalancava la porta della mia stanza starnazzando senza sosta il mio nome. Se ci penso percepisco ancora la rabbia che mi invadeva e il desiderio di prendere a calci le lenzuola pur di sfogare quell’ira implacabile dentro di me.
In questo istante, nonostante siano trascorsi oltre diciassette anni, la sensazione che si fa strada dentro di me è pericolosamente simile a quella che il buongiorno di mia madre provocava allora.
C’è un buio confortevole nella mia stanza. Quel tepore perfetto per coccolare il sonno sacro del week-end e, fino a pochi secondi fa, un silenzio tombale che proteggeva la mia fase REM.
Ma l’incanto del mio riposo è stato odiosamente frantumato dalla suoneria del mio cellulare: Halo della regina del pop, Beyoncé.
Con gli occhi ancora chiusi mi volto sul fianco, muovo il braccio in modo scoordinato fino a che la mia mano si posa sulla fonte di disturbo e, con enfatizzata fatica, lo avvicino all’orecchio.
Io faccio sempre un sacco di scene.
“Mmm?” gorgheggio con fastidio mentre cerco di prolungare di dieci secondi il mio riposo.
Regola d'oro: persevera nel tuo riposo più a lungo che puoi. Ogni istante è essenziale per la tua rigenerazione neurale.
Se la sveglia suona, spegnila e dormi finché non scatta la seconda. E poi la terza. Io di questi tempi rimando fino all'undicesima. Ma io sono una professionista, voi cominciate con due.
“Alzati, culo pesante.” una voce allegra e sicura starnazza dall’altro capo della comunicazione.
Allegro e sicuro non sono cosa buona e giusta prima delle dieci. Anche questa sarà una legge quando sarò regina.
“Bet?” domando io tenendo gli occhi serrati.
“No, sono lo spirito del Natale passato.” risponde lei ironica.
“Simpatica come un dito nel naso, come sempre-”
“Siamo raggianti stamattina! Sei in sindrome premestruale o sei così affettuosa solo con me?”.
Io sono sempre in sindrome premestruale di prima mattina, è ovvio. Credo, però, che sia convinzione comune che il sabato mattina sia pressoché sacro. Lo è per tutti, tranne che per la mia migliore amica che, inspiegabilmente, ritiene di necessitare della mia presenza in questo momento: ciò richiede che io mi porti in posizione verticale e mi diriga all’esterno dell’edificio in cui abito, apparentemente.
“Cagacazzi...” paleso la mia opinione nei suoi confronti sbadigliando, mentre cerco di farla diventare polvere con la forza del pensiero.
"Falla finita. Tanto ti saresti dovuta svegliare tra poco.”
“E perché, di grazia? È sabato mattina! Persino mia madre mi lascia in pace il sabato.”
“Perché ho assoluto bisogno della mia migliore amica!” ridacchia lei divertita.
Lei sostiene di avere assoluto bisogno di me: suppongo come io ho assoluto bisogno di bucarle le ruote della macchina.
“Definisci assoluto bisogno. Perché dal tono della tua voce percepisco che sei fastidiosamente allegra” ribatto rinunciando al sonno e strofinandomi un occhio con un pugno “ il che mi porta a differenti ipotesi e conclusioni. Nessuna delle quali sufficienti a risparmiarti un calcio nel culo quando ti vedo”.
“Tu hai decisamente bisogno di scopare.”
Una cosa da sapere riguardo la mia adorata amica è che lei è assolutamente incapace di stare immobile ma, non amando alcun tipo di attività sportiva, ritiene che il sesso sia la soluzione per un’infinità di problemi: mantiene giovani, fa bruciare le calorie, scarica lo stress e, stimolando le produzione di endorfine, combatte la depressione. Ed è piacevole, il che non guasta. Motivo per cui mi suggerisce di dedicarmi alla suddetta attività almeno un paio di volte in ogni conversazione che abbiamo. Sì, io non sono una persona particolarmente solare, o almeno non lo sono più. E credo di essere anche abbastanza misantropa. O in ogni caso buona parte delle persone che incontro mi stanno sulle palle.
O sono tutti sfigati, o io sono una persona orribile. Sospetto la seconda ipotesi, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto.
“No, quello di cui ho bisogno è dormire il sabato mattina, senza che la mia cosiddetta migliore amica mi svegli, vibrando eccitazione da tutti i pori, quando io non riesco a pensare a un solo motivo valido per essere allegri. C’è un tempo orrendo, mi scoppia la testa, ho una relazione sentimentale del cazzo e non so che cosa fare della mia vita . Quindi, a meno che tu non sia stata arrestata e/o non ti trovi in pericolo di vita e/o non sia stata fotografata da un tuo famigliare in posizioni decisamente poco consone per una che ha studiato dalle suore, ti dispiacerebbe lasciarmi in pace?!” .
Prendo fiato con un pesante sospiro una volta finito il mio piccolo sproloquio e attendo che la persona all’altro capo del telefono si offenda per i miei modi scortesi. Ma quella persona è Bet e, fortunatamente o sfortunatamente per me, in tanti anni di amicizia, ha imparato a non farsi sfiorare dai miei modi isterici.
Ovviamente la sua indifferenza mi urta orribilmente: più io mi indispettisco, più lei si distacca e mi lascia sbollire. Io con Bet non posso vincere: lei è sempre due passi avanti a me. E io, come ogni testa calda che si rispetti, cado nelle sue trappole con tutti i piedi.
Ma di questo posso solo essergliene grata: negli anni, avere accanto qualcuno così, mi ha impedito di perdere il controllo e fare a botte più di una volta. Bet non è una psicologa, ma con la mia testa ci gioca come se fossi un Nintendo 64.
“Hai finito? Senti di aver liberato a sufficienza la tua negatività per oggi?” ribatte lei tranquilla.
“Un’ ultima cosa: vai a fare in culo e dimmi che c’è!”
“Wow, ci baci tua madre con quella bocca?”
“Bet…” le sibilo nel telefono con fare minaccioso.
“Ok, troveremo il modo di stillare un po’ di positività nel tuo sangue, non ti preoccupare. Comunque, trascina le tue regali meline fuori dal letto, vestiti e converti quel broncio in un solare sorriso. Ho bisogno di fare shopping, mi serve assolutamente uno spolverino.”
Resto in silenzio a contemplare la demenziale affermazione appena sfuggita dalle labbra della mia migliore amica, e, d’improvviso, sono incredibilmente confusa. Siamo ancora a Febbraio, il che sono certa implichi una temperatura al di sotto dei 15° C. Capirei se si trattasse della nostra amica comune affetta da shopping compulsivo, Jules, ma Bet è abbastanza equilibrata quando si tratta di shopping, e in ogni caso questa sua supposta necessità non sembra essere tanto impellente da giustificare una telefonata alle nove di sabato mattina.
“Non ho più niente da mettere e la primavera è alle porte. Meglio ancora, voglio un cappottino primaverile!” canticchia lei sempre più euforica.
Io, in risposta, mi accanisco sul piumone, affondando le unghie nelle lenzuola e meditando semplicemente di attaccarle il telefono in faccia.
Le persone come me sono anche poco pazienti: una volta ero uno zuccherino che annuiva sempre, restava in attesa di tutti e aveva un livello di sopportazione piuttosto alto. Poi crescendo questi miei deliziosi pregi si sono rivoltati e si sono aggiunti alla mia splendida lista di difetti.
Ora, essenzialmente, io maltollero. Sì, tutto attaccato in un respiro solo, che rende di più l’idea. Jules dice che è una cosa passeggera. E che se non lo è, troverà il modo di curarmela. O mi prenderà a sberle finché non diventerò simpatica.
Bet non si lascia scalfire neppure dalla mia evidente voglia di concludere la conversazione.
“Ho bisogno di te perché lo shopping da sola è noioso. E perché sono stressata da questi fottuti esami.” sospira Bet determinata e mi sembra di percepire una vena di tristezza nella sua voce. Questo particolare stride terribilmente con la solarità congenita da cui è affetta la mia migliore amica, motivo per cui concedo all’ira che ribolle dentro di me di attenuarsi lievemente.
“Di sabato mattina alle 9?” incalzo con un po’ più di calma.
“Sì, di sabato mattina alle 9, cazzo! Mi sono svegliata alle 7 e 30 perché ormai sono abituata a svegliarmi a quell’ora e non sono più riuscita ad addormentarmi. Sono rimasta quaranta minuti a fissare il soffitto, pensando a quanto questo esame mi stia risucchiando l’anima. Dai, Med... ti prego, ti supplico, vieni con me. Ho bisogno di fare qualcosa che non sia stare piegata su un libro per qualche ora. Certo, forse il tuo pisolino è più importante di me?”.
Quando uno è una merda, è una merda. E Bet con i colpi bassi è una fuoriclasse. Non posso non amarla ancora di più per questo: è il mio Guru per la malvagità.
Ma a questo punto la voce di Bet si è fatta stranamente aggressiva: ha calato la maschera di allegria e mi sta facendo vedere che è proprio sull’orlo di una crisi.
“Med, seriamente, ho bisogno della mia migliore amica. Mi sto esaurendo.”
Non riesco a dirle di no, nonostante la mia recente pseudo - agorafobia, non posso negare un po’ di sostegno a una delle persone più importanti della mia vita.
Il mio silenzio sembra permetterle di capire che ha vinto perché, in una frazione di secondo, il colore della sua voce torna brillante ed ogni traccia di tristezza pare svanire. Come se non fosse mai stata lì.
“Allora mi accompagni?” squittisce serena, ora nuovamente sicura di sé e piena di energia, in quella parte di se stessa che meglio padroneggia.
“Preparo il caffè, portami un cornetto alla marmellata…” gorgoglio io spingendo con forza il piumone verso il fondo del letto con le gambe e rabbrividendo per l’inaspettato sbalzo di temperatura. Cerco di spolverare le miei parole con una credibile dose di acidità per non rovinarmi la reputazione, ma fallisco miseramente.
“Sapevo che avresti ceduto..” sussurra lei vittoriosa, e non so se avesse in programma di farsi sentire o meno dalla sottoscritta.
Di nuovo, che merda!
“L’hai fatto apposta, vero?”.
“Fatto cosa, tesoro?” risponde lei.
La posso quasi immaginare, sorriso smagliante, una ciocca di capelli biondi e setosi che le rigira sull’indice della mano sinistra e occhioni blu grandi e sgranati, mentre sbatte le ciglia con innocenza. Che maledetta doppiogiochista.
Bet mi conosce meglio di quanto io conosca me stessa e mi si rigira come un calzino. Potrebbe disegnare a occhi chiusi la mappa della mia anima, le mie passioni e i miei punti deboli. E, per quanto la consapevolezza di sentirsi così interiormente nuda di fronte a qualcuno possa talvolta rivelarsi frustrante ed imbarazzante, oltre a concederle un evidente vantaggio su di me, non cambierei questa condizione per nulla al mondo: lei è la rappresentazione fisica della parte razionale di me.
“Sarò lì tra dieci minuti. Fatti gnocca che magari ti troviamo un compagno migliore di quel perdente che ti porti a letto in questi giorni!”.
Riattacca il telefono senza darmi la possibilità di controbattere.
Sconfitta ripongo il cellulare sul comodino, sbadiglio e alzo entrambe le braccia sopra la testa, allacciando le mani e tirando i muscoli, nella speranza di strizzarci fuori un po’ di quell’energia che mi sarà necessaria per correre da un negozio all’altro. Non serve a nulla. Mi sento ancora più stanca di prima.
Mi lascio cadere all’indietro, sprofondando nel buco tra i due cuscini del mio nuovo matrimoniale e lascio scorrere gli occhi sul soffitto. Il mio sguardo si posa su una crepa nell’angolo. La fisso per qualche secondo, cercando di assorbire la forza che immagino vi sia nascosta dietro: come una fonte segreta di energia. Ma anche in questa improbabile impresa faccio cilecca.
Sorrido arrendevole e comando ai miei muscoli di contrarsi e portare il mio corpo in posizione verticale.
Appoggio i piedi a terra e sento il freddo del pavimento sfiorarmi la pelle. E questo, stranamente, mi offre un po’ di sollievo. Adoro camminare per casa a piedi nudi. Quando lo faccio avverto un inebriante senso di libertà e controllo sulle mie azioni. Il mio umore sta migliorando. Con uno sforzo sovrumano mi sollevo dal letto e mi dirigo verso il bagno. È l’inizio di un’altra meravigliosa giornata.
Quando hai ventiquattro anni il mondo si aspetta tante cose da te. A volte molto di più di quello che sei disposto a considerare.
Quando hai ventiquattro anni sei legalmente un adulto, una persona che, in qualche misura deve assumersi le responsabilità di quello che pensa e fa. A ventiquattro anni devi sapere chi sei: se ancora non l’hai capito, sei fregato.
Sono un’adulta, sì, ma questa adulta ha dimenticato cosa dovrebbe essere e allora evita: evita i giorni, evita gli sguardi, evita le domande e aspetta le risposte.
E a vivere da soli, si fa presto ad evitare tutto e tutti.
Nel mio minuscolo appartamentino io posso essere una ragazzetta insicura fino a quando mi pare: ma oggi mi trovo costretta ad uscire e a ricordare che ho ventiquattro anni e che sono grande.
Mentre sospiro consapevole di quello che mi aspetta, sento la porta d’entrata sbattere con un suono sordo, seguito da passi rapidi: poi il rumore degli armadietti della cucina che cigolano confermano che ho visite.
Sorrido ed esco dal bagno raccogliendo la felpa che ho lanciato ieri sera sul servo-muto: i miei piedi nudi lasciano degli aloni di umidità sul pavimento della camera e dai miei capelli cascano piccole gocce d’acqua, ma la cosa non mi preoccupa: ho smesso di essere una maniaca dell’ordine e della pulizia dopo i primi 15 giorni in cui vivevo qui. Ora vivo felice nel mio calcolato disordine.
Dal salotto mi ci vogliono circa sette secondi per scorgere una bionda chioma sfrecciare da una parte all’altra del mio minuscolo appartamento.
“Ma tu bussi mai prima di entrare in casa altrui e trasformare la loro cucina nel tuo regno?” ridacchio io mentre mi strofino i capelli bagnati con un asciugamano. E, indossando un paio di jeans e la mia felpa con lo stemma Universidad de Salamanca, raggiungo la mia amica nella mia mini cucina.
“Allontanati all’istante dai miei fornelli, Bet! L’ultima volta che hai provato a fare il caffè, ti sei dimenticata di mettere l’acqua. E quella macchia nera sul mio muro ne è l’inconfutabile prova!” proseguo divertita, osservandola mentre cerca di nascondere la polvere marrone di caffè tostato che ha sparso per metà del mio pavimento.
“Oh Med, eccoti finalmente!” ridacchia lei distratta, cercando inutilmente di porre rimedio al pasticcio che giace sul mio pavimento “Mi chiedevo che fine avessi fatto.”
“Beh B., questa è casa mia. E considerato che ho avuto all’incirca otto minuti per uscire dal letto e lavarmi, dove pensavi che fossi? A giocare a pulce con le volpi del deserto?” le domando sarcastica.
Giusto per la cronaca, sarcasmo è il mio secondo nome. Imparerete ad amarmi in ogni caso. O forse no, dato che la sopracitata caratteristica non rende particolarmente amabili. Ma che sono una stronza l’ho già anticipato, quindi, in fondo, suppongo non vi stupirete troppo.
Strizzo gli occhi, mentre la guardo dimenarsi scoordinata in un movimento che ricorda una puzzola che vuole ballare la Macarena.
“Bet, stai per caso cercando di distrarmi mentre infili con il piede destro il caffè che hai rovesciato sotto il mio tappeto?” le domando sorridendo e l’espressione colpevole che si dipinge sul suo volto è qualcosa di impagabile.
“Assolutamente no! Cosa te lo fa pensare?! Non farei mai una cosa simile!” mi risponde lei indignata, raccogliendosi con naturalezza la cascata dorata che le incornicia il viso; poi, con un rapido movimento del polso, acconcia una perfettamente disordinata coda di cavallo.
Ho sempre adorato i capelli di Bet. Avete presente quelle ragazze con folte chiome naturali e spettinate, eppure sempre perfette? Di quelle che non vedono mai fon o spazzola, eppure, nel loro disordine, sono sempre impeccabili e seducenti? Ecco, Bet è esattamente così.
“Allora vuoi spiegarmi, di grazia, perché ti muovi come la bambina dell’esorcista?” ribatto lasciando cadere l’asciugamano su una sedia e appoggiandomi all’intelaiatura della porta.
“Ho un attacco di colite...” prova a fingere lei con un’espressione contorta sul viso: se quello sia il suo tentativo di simulare sofferenza o il risultato dell’incapacità di trattenere una risata, non mi è chiaro. So solo che è comica. E pure brutta.
“Che cosa?” scoppio a ridere “Tesoro, credimi, se tu avessi la colite, considerata la tua soglia di sopportazione del dolore, avrei già ricevuto lamentele da tutti gli inquilini del palazzo. Comunque, deponi quel cucchiaio, che tra parentesi in mano tua è un’arma estremamente pericolosa, e fai due passi indietro. Devo ancora pagare l’affitto, e vorrei evitare di dover sborsare anche per i danni causati da un incendio.”
“Quanto sei nevrotica! Guarda che il caffè a casa mia lo faccio anche io!” borbotta la mia migliore amica offesa.
“Si, quello solubile però! Forza, siediti e tira fuori il mio cornetto. E lascia la cucina a chi ci sa stare.” Mi faccio strada verso i fornelli e, raggiungendo la mia amica bionda, le afferro le guance con una mano, stringendo e facendo sporgere le sue labbra e rido al suo mugolo di protesta.
“I cornetti sono nel tostapane” borbotta a fatica prima di spintonarmi per liberarsi dalla mia presa e trotterellare lontano da me.
All’insorgere di uno sguardo di puro orrore sul mio viso lei sorride tranquilla, mentre stacca un acino d’uva dal grappolo deposto nel portafrutta al centro del mio tavolo e se lo lancia in bocca.
“Scusa?! Bet, dimmi che non hai davvero messo i cornetti nel tostapane?”
“Ma si erano raffreddati!”
La mia amica è una deficiente.
“Bet, sei proprio domesticamente handicappata. Ma ti voglio bene lo stesso” le sorrido, estraendo le due brioches - che ormai hanno l’aspetto di schiacciatine debordanti confettura arancione - dal povero elettrodomestico e inizio a preparare la moka.
“Come sei caritatevole! In ogni caso, si può sapere che fine hai fatto ieri sera? Ti prego, dimmi che non eri a concedere di nuovo le tue grazie a quella sottospecie di decerebrato babbuino che, per rispetto, chiameremo L?”
“L? In che senso?”
“L come loser. Che in italiano vuol dire perdente.”
“Non puoi chiamarlo con il suo nome?” ridacchio immaginandomi una enorme L stampata sulla fronte di David, il mio attuale Friend with benefits: visto il rapporto che abbiamo, ci sta giusto la definizione perché non siamo un gran che friends e i benefits ci sono solo quando gli gira a lui. E non sono neppure benefici di grande qualità, se dobbiamo proprio dirla tutta.
“No, è uno sfigato. Non merita tanto rispetto da essere chiamato per nome. È un perdente, uno stupido e un viscido. Puoi ricordarmi perché ci scopi?” Non riesco a trattenere la risata e, in fondo, so che lei ha ragione.
“Boh, sarà una cosa di chimica.” rispondo io pigramente mentre recupero il latte dal frigorifero e cerco di addentare quella sorta di schiacciatina molliccia eruttante marmellata che la mia amica ha il coraggio di definire brioche.
Tento è la parola chiave perché mentre spiego che l’ignoranza e la mancanza di sinapsi di L non sono invalidanti per l’unica reale attività che svolgiamo assieme, un rivolo di confettura di albicocca - credo - si fa strada dall’angolo della mia bocca fino a metà del mio collo.
“Med, quel ragazzo è brutto. È così brutto che il suo epiteto fisso - e qui ti cito testualmente - é gabinetto a pedali!” continua lei facendo il segno delle virgolette con le dita. “E poi è stupido, molto stupido. Dimmi quante conversazioni degne di nota hai avuto con lui in tre anni?”
“Nessuna” rispondo io senza esitazione, togliendo il caffè dal gas e versandolo in due grosse tazze all’americana.
Io adoro le tazzone di caffè. A essere sincera io adoro tutto quello che è americano. Mi piace la filosofia del tutto big. Forse perchè anche io sono in formato oversize; o magari perché in America sembra tutto più confortevole e più luccicante.
Voi normal size non capirete mai fino in fondo l’orda di goduria e il senso di appagamento che deriva dallo shopping in USA per una che qui è un po’ troppo.
Perché là, pure la sottoscritta, quando entra in un negozio, si sente normale: il mio giunonico corpo trova la taglia per tutti gli indumenti e, improvvisamente il mondo si tinge di rosa. O di verde, visto che cerco di spendere più dollari possibili.
Non giudicatemi, solo lì posso trovare tutto ciò che mi serve.
“Il nostro rapporto è puramente fisico. Non ha abbastanza cervello per sostenere una conversazione. Ma cosa vuoi che ti dica? Mi fa sesso!”
“Med, cazzo, ma come fa una cosa del genere a farti sesso? Ha il QI di una cimice ubriaca, ha la fisicità di un Mocho Vileda, si veste come un tronista, e in tutto questo si sente pure figo. Dai, è uno sfigato fotonico!”
Mi fa morire.
Bet se ti deve dire una cosa, te la dice. Punto. Non si cura della forma o delle parole. Si limita a esporti i fatti. Con un tocco di delicatezza che, forse, solo io, lei e Jules, la terza parte di me, possiamo apprezzare.
Se io fossi Brenda Walsh di Beverly Hills 90210, Jules e Bet sarebbero le mie Kelly e Donna. Non certo per personalità. Ma noi siamo un trio. Loro sono le mie migliori amiche da più di dieci anni. Sono le due parti perfette per completarmi. Talmente diverse tra loro, sotto ogni forma, da incastrasi a pennello con la mia anima.
“Non lo so, Bet. Io ci provo a farla finita con lui! Ogni volta mi riprometto che sarà l’ultima. Ma quando poi lui viene all’attacco, la mia capacità di resistenza va sotto zero.”
“Allora deve essere una specie di Priapo!”
“Ma quale Priapo! A letto non è certo un gran che!”
“Che schifo! Ma vedi che è un perdente! E poi Med, dai, non hai neanche l’esclusiva! Lo sai che appena può intingere il biscottino lo fa!”
“Lo so! C’ho messo tre anni ad ammetterlo, ma lo so che si fa tutte quelle che può” dico io, imbarazzata, tenendo lo sguardo basso verso la mia tazza.
Livello di autostima di Med : -340.
Ogni tanto penso che se potessi sdoppiarmi, la me n°2 prenderebbe a calci sui denti la me n°1 per mancanza di dignità e rispetto per se stessa. E, che resti tra noi, a volte sono sicura del fatto che concedo a L le mie grazie solo perché sospetto che il numero di probabilità che altri mi si facciano, diminuisca di pari passi con l’aumento della mia ciccia e dei miei anni.
La scelta è quello o un pisello posticcio: sì, forse il vibratore sarebbe più affettuoso.
Grazie per il suggerimento. Valuterò la cosa.
“Lo vedi perché sei nervosa, tesoro? Sei sessualmente frustrata, non ti piace quello che studi e stai sempre a dieta! Dai, che vita di merda!” mi risponde lei dolce, accarezzandomi la mano per darmi conforto.
“E allora cosa dovrei fare?” sussurro io, lasciando cadere le spalle in segno di sconfitta.
“Cambiare la tua vita!” squittisce Bet tutta allegra, manco avesse trovato la formula per la fusione fredda e io la guardo con aria stupita.
Bionda e scema: è tipico.
“Hai ragione!” strillo io fingendo euforia e sorpresa, picchiettandomi l’indice della mano sinistra sul mento.
“Che sciocchina che sono! In fondo è facile come obliterare un biglietto del treno!” e un sorriso finto mi si appiccica sul viso.
“Ti odio quando fai così! Io sto cercando di darti una mano! Sei infelice, e non cercare di negarlo! E se sei infelice, devi cambiare le cose. Punto. A piccoli passi, Med. Non sarà facile, ma io ci sarò, ok?” mi dice lei seria. Nei suoi occhi leggo la determinazione che la rende tanto speciale e che mi ha fatto impazzire per lei sin dal primo giorno.
Io resto zitta, con la testa china, a osservare le nostre mani intrecciate. Lei mi legge dentro. L’ha sempre fatto. Però non mi dice mai niente. Aspetta che sia io ad andare a cercarla. Mi fa pressione solo quando capisce che sto troppo male per chiedere aiuto di mia iniziativa. Quando la vergogna mi frena, quando sono troppo in basso per farmi sentire, lei mi afferra, mi sorride e, con due parole, mi tocca il cuore.
Questa è Bet.
Riesco solo a sussurrare un timido ok. Sono troppo orgogliosa, cinica e fiera. E quando mi sento esposta e vulnerabile mi chiudo a riccio. Ma chi mi conosce lo sa. Sa che le parole mi si frenano in gola. E un monosillabo è già una conquista. Restiamo in silenzio per qualche minuto. Bet mi sorride, mi stringe un’ultima volta la mano, quasi fosse un tentativo di trasferire in me un po’ della sua forza, poi la lascia.
Io so che ha ragione, ma ammettere che la tua vita ha preso il binario sbagliato fa paura. Ammettere che negli ultimi quattro anni ogni tua scelta non era quella giusta, fa male. E accettare che il castello ha iniziato a crollare quando uno, che merita solo di essere chiamato L dalla tua migliore amica, ha bussato alla tua porta, ti fa sentire ancora più uno schifo. Ma, a volte, è la vita che fa schifo. E, o lo accetti e la combatti, o ti schiaccerà col suo peso.
I miei pensieri sono improvvisamente interrotti da un sonoro “Merda!” che echeggia nel silenzio delle mie pareti. Alzo lo sguardo e di fronte a me si presenta un’immagine magnifica di Bet con il viso imbronciato, una mano nei capelli, l’altra che stringe la tazza e una serie di grossolane macchie che adornano la sua maglia bianca, fresca di lavatrice.
“ Ma che...? Bet, che hai fatto?” le domando lentamente, con le labbra separate per la confusione.
“Porca paletta! Ho puciato troppo il pezzo di cornetto e mi è ricascato nella tazza per il peso!” risponde lei altrettanto stupita, ripiegando la testa verso la tazza, con gli occhi larghi e alla ricerca del pezzetto di dolce perduto.
“E come c’è finito tutto il caffè sulla tua maglia?” domando guardando nella sua stessa direzione.
“Eh, prova tu a essere un pezzo di cornetto e a lanciarti dalla mia bocca....ha fatto lo tzunami! Maledetto dispensatore di adipe!” afferma lei a denti stretti. Sembra quasi che la brioche abbia minacciato di ucciderle la famiglia mentre, con spiccata cocciutaggine intinge il dito nel caffè e lo fa girare, sollevandolo a intervalli regolari, sperando di ripescare il pezzo di brioche perduto.
Scoppio in una fragorosa risata “Sai che c’è? Che ne dici se ti allontani dal tuo nemico, prendi una maglia dal mio cassetto, e ce ne andiamo a fare questo benedetto shopping?” ridacchio io, afferrandola per un gomito e spingendola in camera mia.
“Secondo me è casa tua che emana energia negativa! E se la sottoponessimo a un po’ di feng shui?” ridacchia lei frugando tra le mie cose.
“Tieni giù le tue zampe dal mio appartamento. Io e la mia energia negativa stiamo bene così. E se non ci lasci in pace, veniamo a prendere a calci il tuo terzo chakra!”
“Cazzo, come sei aggressiva. Probabilmente in te aleggia solo magia nera.”
Gira sui tacchi ed esce. Io, scuotendo la testa, la seguo e rido.
Forza e coraggio.
Tre ore dopo non mi sento più i piedi, sono accaldata, spettinata e irritata.
In due abbiamo comprato solo un tristissimo maglione grigio, perfetto per casa -come l’ha definito Bet - e una sciarpa, perché era in liquidazione.
Insomma fallimento su tutta la linea.
“Però il mio maglioncino è morbido!” bisbiglia Bet alla mia destra.
“ E la mia sciarpa era economica!” le rispondo senza fermarmi.
“Bet, siamo veramente due principianti dello shopping. Deve esserci qualcosa di mutato nel nostro DNA.” ipotizzo prendendo atto della sconfitta ottenuta durante la nostra uscita. “Mia madre dice che non è naturale per una donna non avere l’istinto per lo shopping.”
“Nel tuo caso, amica mia, c’è un corto circuito ogni volta che entriamo in una boutique.” riflette Bet appallottolando il suo acquisto con poca cura e gettandolo nella busta di carta che ha appesa al braccio.
“A che ti riferisci di preciso?” domando sospettosa.
“Nello specifico al fatto che entri in un negozio, sostieni che ti piaccia praticamente tutto, provi mezzo reparto, poi esci dal camerino dicendo che ci devi pensare e alla fine compri il capo più brutto che si trova nel cesto accanto al bancone” mi spiega con un ghigno malefico sul viso.
“Beh, perché faccio attenzione alle mie finanze. Lo faccio per risparmiare.”
“Non potresti risparmiare comprando cose che non siano fondi di magazzino?”
L’ironia di Bet ha un piccolo difetto: non c’è. Vi assicuro che quando lei dice cose così, sostiene che le sue siano chiaramente affermazioni ironiche, ma secondo me non ha chiaro di che si tratti.
Bet è un po’ come Sheldon di The Big Bang Theory: lui non capisce il sarcasmo, la mia amica ignora cosa sottintenda l’ironia.
“Meglio la mia indecisione della tua mutazione genetica.” rispondo io frugando nella mia borsa alla ricerca di un elastico con cui legare i miei capelli depressi.
“Che sarebbe?”
“Hai un gene tronco, è ovvio.”
“E quale?”
“Quello del buon gusto.” chiudo la mia spiegazione sogghignando come una cretina alla mia stessa battuta.
“Fottiti!” mi risponde spintonandomi per poi cambiare argomento.
“Med, ti prego, un caffè! Un caffè e una panchina mi renderebbero la ventiquattrenne più felice della città!” si lamenta lei rallentando il passo.
Facciamo marcia indietro e ci dirigiamo verso il piccolo caffè all’angolo alle nostre spalle. Bet si lascia cadere sulla prima sedia che trova ed io la fisso curiosa.
“Mi prendi un caffè macchiato? Per favore? Sarò la tua migliore amica?” mi domanda con tono zuccherato e sbattendo le ciglia.
“Non cercare di sedurmi, sgualdrina! Non sei il mio tipo! Vuoi il caffè? Poi?Una fetta di culo vicino all’osso tagliata fina fina?”
“Dai! Ti pre..” Bet si interrompe bruscamente “Jules!” strilla così forte che faccio un passo indietro.
Mi volto e vedo la bruna chioma leonina di Jules che avanza verso di noi a passi lunghi. Stivali neri ai piedi, jeans stretti a vita bassa e un grosso e caldo maglione bianco che le spunta dal cappotto nero di cachemire. Jules strizza gli occhi, cercando di metterci a fuoco. Dimenticavo, Jules è cieca come una talpa. E per di più terribilmente distratta quando passeggia per la città.
“Jules! Jules siamo noi!” le urlo agitando una mano. Sul suo viso si dipinge un sorriso, e inizia a zompettare verso il nostro tavolo.
“Perché saltella? Sembra una tarantola!” dico io voltandomi verso Bet che si limita a fare spallucce e sorride alla nostra scoordinata amica.
“Ciao, ragazze dai facili costumi! Che ci fate qui? E, ancora più importante, perché io non sono con voi?”.
Io e Bet ci scambiamo uno sguardo confuso.
“Jules, senti di nuovo di essere fuori dal tuo corpo?” le domando io cauta.
Jules è la più stramba delle tre e quella che, spesso, adduce a scuse assurde per quello fa. La maggior parte delle volte accusa Jules Crux dei suoi misfatti e afferma che non era nel pieno possesso delle sue facoltà e che Cruxie - sì, le abbiamo dato un tenero soprannome - aveva preso i comandi.
Ho provato a farle notare che, se continua così, prima o poi le diagnosticheranno qualche forma di psicosi: ma lei, pur di non ammettere la colpa, si ostina a dire che non è colpa sua.
“Cosa? Ma no, cretine! Intendevo, perché io non sono stata invitata a fare shopping con voi! È un gesto molto scorretto!” risponde lei indignata.
“Perché tu di solito dormi fino alle due il sabato!” risponde Bet mentre io abbasso lo sguardo verso le mani di Jules. Avrà almeno sei shoppers diverse, quattro delle quali di dimensioni XXL.
“Ragion per cui, vederti sveglia a quest'ora, considerate le tue usanze e manie, unite alla quantità di roba, - inutile e di cattivo gusto, senza dubbio - che sembra essere contenuta nei tuoi pacchetti, e ipotizzando che tu abbia appena speso metà della cifra che tuo padre ti passa al mese, mi sento di insinuare che il tuo sia stato un attacco di shopping compulsivo. Di nuovo.” esclamo io squadrandola da cima a fondo e osservando il suo linguaggio del corpo.
Alle ultime due parole è evidente un sussulto, seguito da un brivido.
Bingo!
“Ora, unendo tutti i dati a mia disposizione e, essendo a conoscenza del fatto che attacchi di tale gravità si verificano con una percentuale più alta quando di mezzo c’è una specifica persona, mi sentirei di azzardare che...rullo di tamburi...hai litigato con Cucciolo.”
Concludo con enfasi da presentatore del circo, poi indico Bet con un palmo e lei si porta le mani alla bocca accennando finto stupore
“Oh! Shock! Sbigottimento! Ma questo non succede mai! Non so se mi riprenderò!”.
Jules ride per nulla offesa dalla nostra sceneggiata poi ribatte:
“ Siete due stronze. Si, ho litigato con quel ciccione! E avevo bisogno di svagarmi!”
“Quel ciccione è il tuo ragazzo, Jules. Non che la nostra stima nei suoi confronti possa essere ritenuta superiore a quella che abbiamo per l’alito della vicina di Bet, ma si può sapere che ha fatto questa volta?” le domando.
“Niente di nuovo. È stato solo....”, riflette qualche istante “... se stesso, direi.” conclude soddisfatta.
Cucciolo, all’anagrafe Giorgio, è il ragazzo di Jules da ormai cinque lunghi anni. È un bestione con i modi raffinati di un leone marino, la voce da cavernicolo, il carattere lunatico di una donna in menopausa e la sensibilità di un bue muschiato. Lui e Jules si sono lasciati una quantità innumerevole di volte e, per nostra sfortuna, anche ripresi. Hanno un rapporto assurdo: un continuo di liti, urla, tensione, seguiti da periodi di idilliaca felicità. Quando chiedi a Jules se è innamorata risponde “Non lo so. Ora ci sto bene!”
Affascinanti creature.
“Beh, ora che sapete il perché della mia presenza qui, mi dite che ci fate voi due, di sabato mattina, in giro per negozi?” domanda Jules sedendosi al tavolino con Bet e allungandomi il suo portafogli, facendo cenno con il mento verso il bancone del bar.
“Med, un caffè liscio per me” conclude sorridendo.
“Vi sembra per caso che io indossi l’uniforme di questo bar? Perché devo farvi da cameriera?” borbotto io a testa bassa.
“Sei scesa col piede sinistro dal letto, stamattina?” mi domanda lei, ridacchiando.
“Anche, come ogni mattina. Ma soprattutto trovo voi due estremamente irritanti” esclamo allontanandomi e dirigendomi verso la cassa.
Dal bancone le vedo chiacchierare allegramente, probabilmente stanno commentando il mio pessimo umore, divertite. La cosa, stranamente, fa sorridere anche me. Mi volto verso il barista e chiedo tre caffè. Mentre aspetto che siano pronti, sento Jules che mi chiama. Mi giro tranquilla, fino a che non vedo che sta sventolando il mio cellulare.
“È la padrona di casa. Dice che ha trovato la persona con cui devi condividere l’appartamento.” mi strilla lei.
Oddio no! Un nuovo essere umano con cui imparare a comunicare no!
Dovete sapere che io ho un gravissimo problema con gli estranei. L'interazione con un agglomerato di sconisciuti fa emergere a tutta spiano la timidezza che mi ha sempre caratterizzato. O forse la mia è di fatto solo misantropia. Anche se non penso, perché, una volta che mi sciolgo, non mi stanno proprio tutti sulle palle.
Sono sempre stata una bambina piuttosto evitante e timorosa: per intenderci, ero la classica bimba che si nascondeva - letterlamente - sotto la gonna della mamma, quando signori estranei le rivolgevano parola.
Sta di fatto, però, che non sono molto brava con i primi incontri. Non so perché ma, quando mi si piazza in un gruppo di persone che non conosco, improvvisamente la mia capacità oratoria viene meno e faccio cilecca su ogni fronte. Me ne resto lì, annuendo, sorridendo ed esprimendomi a monosillabi. Risultato? La metà delle volte mi prendono per una decerebrata, l’altra metà per una insopportabile spocchiosa che si sente superiore a tutti. E stronza. Il che, come abbiamo già convenuto, è anche parzialmente vero.
Diciamo che, non evito più come facevo a sei anni però, senza dubbio, se si tratta di prendere l'iniziativa nella conversazione, non contate su di me. Per carità, se mi poni delle domande, dopo anni di lotta con la mia emotività, ho raggiunto il traguardo di riuscire a rispondere con frasi di senso compiuto. Però, se aspettate che sia io ad intavolare una discussione interessante o a dare il via a qualche tipo di interezione, state freschi.
Capirete, dunque, quanto nervosa mi renda l’idea di dover imparare a vivere con una persona sconosciuta e dividerci l’appartamento. Il vero problema è che, anche se la casa è piccola, per le mie possibilità costa una fortuna. Non mi posso permettere di pagare tutto l’affitto da sola. Quindi la proprietaria, per venirmi incontro, ha accettato di cercarmi un coinquilino.
Con le spalle chine e lo sguardo teso mi dirigo verso il tavolo delle mie amiche.
No, non sono affatto pronta. Non voglio sapere chi ha trovato. Non voglio sentire che non potrò più girare mezza nuda per casa, ballando Barry White in mutande, mentre pulisco - per così dire - il pavimento. Non sono pronta a farmi vedere appena sveglia la mattina, con i capelli che sembrano essere sopravvissuti all’uragano Katrina, l’occhio semi aperto, gonfio e con occhiaie che mi fanno assomigliare ad un panda, mentre indosso i miei orrendi pigiami dell’anteguerra. Di cui, tra l’altro, in realtà io vado molto orgogliosa ma che sembrerebbero essere socialmente inaccettabili.
Ho l’aria di chi sta andando al patibolo quando raggiungo la mia meta e, insicura, allungo la mano verso Jules per prendere il telefono. Lei mi sorride cercando di incoraggiarmi e mi sussurra:
“Vedrai
che non sarà così male. Almeno non soffrirai di
solitudine!”.
Certo, per loro è facile parlare. Loro non devono dividere un minuscolo spazio vitale con una persona mai vista.
Bet vive con l’amore della sua vita, Federico, che noi chiamiamo teneramente Jimmy H. per la sua passione per le chitarre, in uno splendido appartamento in pieno centro. Jules possiede una casa tutta sua, in comune con la sorella, che la nonna ha deciso intestarle un anno fa, praticamente a 50 metri da Bet.
Io invece, da vera fallita, mi sono trovata un appartamento troppo caro e troppo piccolo persino per i Puffi, lontano dal centro e senza parcheggio. Ma loro non amano sentirmi dire queste cose.
Titubante afferro il cellulare e me lo avvicino all’orecchio, scambiandomi un’occhiata con Bet, alla disperata ricerca di aiuto. Lei ammicca e sorride. Sempre in silenzio mi volto nuovamente verso Jules, sperando in un salvataggio, ma anche lei mi annuisce e fa gesto con la mano di iniziare a parlare.
“Pronto?” domando insicura e mi rendo conto che la mia voce trema. Sono patetica! Sembro una ragazzina di dodici anni!
“Med, cara ragazza! Come va? Tutto a posto?” mi domanda la signora Riposi. La mia affittuaria è un tantino affettuosa con qualsiasi forma di vita. Lei adora tutti. È piuttosto in là con l’età e ha una vera venerazione per i giovani. Dice che è perché non ha nipoti e che noi siamo il futuro. E, non so come, ritiene tutti estremamente educati e piacevoli.
“Buongiorno Signora Riposi. Tutto benissimo, grazie. Lei? Come stanno i suoi cagnolini?” le chiedo sfoderando il tono più cortese che conosca.
“Benissimo tesoro, ti ringrazio! Allora, bando alle ciance. Ho una meravigliosa notizia per te!” mi strilla nell’orecchio.
Meravigliosa notizia, dice lei. Catastrofe e fine della mia serenità, penso io. Che seccatura!
“Ah sì, la mia amica mi ha accennato qualcosa” le rispondo vaga, lanciando un’occhiata a Jules, che persevera nel mantenere il suo entusiastico sorriso.
“Sarai al settimo cielo immagino. Finalmente ti ho trovato qualcuno con cui dividere la spesa! Sono così felice! Non mi piaceva pensarti in quell’appartamento tutta sola.”.
Eh, capirai, manco fossimo nel Bronx! Poi penso al fatto che l’ha chiamato appartamento: esiste un termine per definire un orifizio anale in termini immobiliari?
Casa mia è un buco, su questo non ci piove. Però è ben tenuta e la signora Riposi paga la metà delle spese condominiali. Non mi è ancora chiaro il perché: lei dice che è la cosa più giusta. In ogni caso, scusate se è poco!
Sospiro e alzo gli occhi al cielo mentre lei continua, estasiata.
“Comunque ora non abbiamo più motivo di preoccuparci. Vedrai che tesoro che ti ho trovato. Sarà a casa tua tra circa mezz’ora. Già con le sue cose, cara. Entrerà in casa già da oggi. Mi ha pagato stamattina caparra e primo affitto. Forza, corri a casa. Ci sentiamo presto. Ciao Med cara.”
Questa donna usa la parola cara troppe volte per i miei gusti.
“Aspetti signor...” troppo tardi. Ha riattaccato. Non mi ha lasciato neanche parlare. Era troppo eccitata all’idea di avermi procurato una deliziosa compagnia. Che strazio!
Sospiro e richiudo il telefono, sconfitta. Perché questa giornata continua a peggiorare? Io non voglio qualcuno con cui dividere casa. Io voglio pagare di meno e vivere nel mio disordinato appartamento formato Polly Pocket da sola. E in santa pace.
“Ahahah! Dovresti vedere la tua faccia! Sembra che tua madre ti abbia appena detto che darà fuoco alla tua collezione di libri!” ride Bet, abbracciandosi lo stomaco e piegandosi in avanti.
“Ridi, ridi, iena ridens! Tanto sono io che devo prendermi una sconosciuta in casa!” mi lagno io sempre più irritata, lasciandomi cadere nella sedia accanto a lei e praticando l’arte del broncio.
Sono bravissima: aggrotta la fronte, sguardo insoddisfatto, mento verso il petto - e visto che il mio è grosso, richiede uno sforzo minimo - e boccuccia a trombetta.
Sono ventiquattro anni che mi esercito. Ormai sono una professionista. Per chi volesse offro consulenze e ripetizioni private.
“Med, la pianti? Scusa, ma hai appena saputo che pagherai la metà dell’affitto e che avrai una persona con cui dividerti le pulizie di casa. E per di più che ti farà compagnia! Non sei contenta?” mi domanda Jules, spazientita.
“No, non sono contenta! Io non voglio compagnia! Io non voglio dovermi controllare e essere simpatica e gentile 24 ore su 24! Le pulizie le so fare benissimo da sola e a me piace starmene da sola sul mio divano, in tuta, guardando la tv e compatendomi, ok?” rispondo io arrabbiata.
“Ok, adesso basta, Med. Una coinquilina non è la fine del mondo, anzi. Forse la smetterai di essere così scorbutica e imparerai a controllare tutta questa rabbia!” mi risponde lei severa.
“Jules, non mi psicanalizzare! Io non sono una tua paziente!” la aggredisco io.
“Beh, forse invece dovresti esserlo. Ti farebbe bene un po’ di terapia. Sei diventata una pazza piena di rancore. Sei una stronza, aggressiva e isterica. Ce l’hai con tutti e non ti va...”
“Fatela finita! Tutte e due! Fermatevi prima di dire cose che non pensate!” si alza in piedi Bet e ci guarda con sguardo di rimprovero.
Io stringo i pugni e lancio a Jules un’occhiata ferita e piena di irritazione. Lei mi guarda con aria colpevole e poi abbassa il viso. Abbiamo esagerato tutte e due. Non avrei dovuto scaricare su di lei la mia frustrazione.
“Dai ragazze, basta! Fate pace e andiamo a vedere questa nuova inquilina, okay?” ci suggerisce Bet con voce materna.
Sussurriamo un contemporaneo scusa, raccogliamo le nostre borse con i nostri acquisti e ci incamminiamo verso la macchina.
Certo, per loro è facile parlare. Loro non devono dividere un minuscolo spazio vitale con una persona mai vista.
Bet vive con l’amore della sua vita, Federico, che noi chiamiamo teneramente Jimmy H. per la sua passione per le chitarre, in uno splendido appartamento in pieno centro. Jules possiede una casa tutta sua, in comune con la sorella, che la nonna ha deciso intestarle un anno fa, praticamente a 50 metri da Bet.
Io invece, da vera fallita, mi sono trovata un appartamento troppo caro e troppo piccolo persino per i Puffi, lontano dal centro e senza parcheggio. Ma loro non amano sentirmi dire queste cose.
Titubante afferro il cellulare e me lo avvicino all’orecchio, scambiandomi un’occhiata con Bet, alla disperata ricerca di aiuto. Lei ammicca e sorride. Sempre in silenzio mi volto nuovamente verso Jules, sperando in un salvataggio, ma anche lei mi annuisce e fa gesto con la mano di iniziare a parlare.
“Pronto?” domando insicura e mi rendo conto che la mia voce trema. Sono patetica! Sembro una ragazzina di dodici anni!
“Med, cara ragazza! Come va? Tutto a posto?” mi domanda la signora Riposi. La mia affittuaria è un tantino affettuosa con qualsiasi forma di vita. Lei adora tutti. È piuttosto in là con l’età e ha una vera venerazione per i giovani. Dice che è perché non ha nipoti e che noi siamo il futuro. E, non so come, ritiene tutti estremamente educati e piacevoli.
“Buongiorno Signora Riposi. Tutto benissimo, grazie. Lei? Come stanno i suoi cagnolini?” le chiedo sfoderando il tono più cortese che conosca.
“Benissimo tesoro, ti ringrazio! Allora, bando alle ciance. Ho una meravigliosa notizia per te!” mi strilla nell’orecchio.
Meravigliosa notizia, dice lei. Catastrofe e fine della mia serenità, penso io. Che seccatura!
“Ah sì, la mia amica mi ha accennato qualcosa” le rispondo vaga, lanciando un’occhiata a Jules, che persevera nel mantenere il suo entusiastico sorriso.
“Sarai al settimo cielo immagino. Finalmente ti ho trovato qualcuno con cui dividere la spesa! Sono così felice! Non mi piaceva pensarti in quell’appartamento tutta sola.”.
Eh, capirai, manco fossimo nel Bronx! Poi penso al fatto che l’ha chiamato appartamento: esiste un termine per definire un orifizio anale in termini immobiliari?
Casa mia è un buco, su questo non ci piove. Però è ben tenuta e la signora Riposi paga la metà delle spese condominiali. Non mi è ancora chiaro il perché: lei dice che è la cosa più giusta. In ogni caso, scusate se è poco!
Sospiro e alzo gli occhi al cielo mentre lei continua, estasiata.
“Comunque ora non abbiamo più motivo di preoccuparci. Vedrai che tesoro che ti ho trovato. Sarà a casa tua tra circa mezz’ora. Già con le sue cose, cara. Entrerà in casa già da oggi. Mi ha pagato stamattina caparra e primo affitto. Forza, corri a casa. Ci sentiamo presto. Ciao Med cara.”
Questa donna usa la parola cara troppe volte per i miei gusti.
“Aspetti signor...” troppo tardi. Ha riattaccato. Non mi ha lasciato neanche parlare. Era troppo eccitata all’idea di avermi procurato una deliziosa compagnia. Che strazio!
Sospiro e richiudo il telefono, sconfitta. Perché questa giornata continua a peggiorare? Io non voglio qualcuno con cui dividere casa. Io voglio pagare di meno e vivere nel mio disordinato appartamento formato Polly Pocket da sola. E in santa pace.
“Ahahah! Dovresti vedere la tua faccia! Sembra che tua madre ti abbia appena detto che darà fuoco alla tua collezione di libri!” ride Bet, abbracciandosi lo stomaco e piegandosi in avanti.
“Ridi, ridi, iena ridens! Tanto sono io che devo prendermi una sconosciuta in casa!” mi lagno io sempre più irritata, lasciandomi cadere nella sedia accanto a lei e praticando l’arte del broncio.
Sono bravissima: aggrotta la fronte, sguardo insoddisfatto, mento verso il petto - e visto che il mio è grosso, richiede uno sforzo minimo - e boccuccia a trombetta.
Sono ventiquattro anni che mi esercito. Ormai sono una professionista. Per chi volesse offro consulenze e ripetizioni private.
“Med, la pianti? Scusa, ma hai appena saputo che pagherai la metà dell’affitto e che avrai una persona con cui dividerti le pulizie di casa. E per di più che ti farà compagnia! Non sei contenta?” mi domanda Jules, spazientita.
“No, non sono contenta! Io non voglio compagnia! Io non voglio dovermi controllare e essere simpatica e gentile 24 ore su 24! Le pulizie le so fare benissimo da sola e a me piace starmene da sola sul mio divano, in tuta, guardando la tv e compatendomi, ok?” rispondo io arrabbiata.
“Ok, adesso basta, Med. Una coinquilina non è la fine del mondo, anzi. Forse la smetterai di essere così scorbutica e imparerai a controllare tutta questa rabbia!” mi risponde lei severa.
“Jules, non mi psicanalizzare! Io non sono una tua paziente!” la aggredisco io.
“Beh, forse invece dovresti esserlo. Ti farebbe bene un po’ di terapia. Sei diventata una pazza piena di rancore. Sei una stronza, aggressiva e isterica. Ce l’hai con tutti e non ti va...”
“Fatela finita! Tutte e due! Fermatevi prima di dire cose che non pensate!” si alza in piedi Bet e ci guarda con sguardo di rimprovero.
Io stringo i pugni e lancio a Jules un’occhiata ferita e piena di irritazione. Lei mi guarda con aria colpevole e poi abbassa il viso. Abbiamo esagerato tutte e due. Non avrei dovuto scaricare su di lei la mia frustrazione.
“Dai ragazze, basta! Fate pace e andiamo a vedere questa nuova inquilina, okay?” ci suggerisce Bet con voce materna.
Sussurriamo un contemporaneo scusa, raccogliamo le nostre borse con i nostri acquisti e ci incamminiamo verso la macchina.
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